TOP 10 FAQ SUL COACHING - Maria Chiara Forte - Business & Life Coach

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MARIA CHIARA FORTE
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  1. Cos'è il Coaching?
Quando mi chiedono di definire il coaching mi viene in mente l’immagine di una carrozza, una di quelle eleganti e leggere del XVI secolo. Perché proprio una carrozza? Tanto per cominciare perché in inglese carrozza si dice “coach” e poi perché il coach in fondo fa un po’ come il cocchiere: il cliente gli dice dove portarlo e lui fa del suo meglio per scegliere la strada più veloce per raggiungere la meta. Il coaching è proprio come un viaggio dove il cliente, detto coachee, ha chiara quale sia la sua situazione attuale, il suo punto di partenza, e si prefigura un punto di arrivo per lui ideale. L’origine del coaching normalmente è associata allo sport! Pensiamo per esempio al californiano Timothy Gallwey: era un maestro di tennis e negli anni Settanta ha scritto una serie di libri dando prova di come nel tennis i giocatori riuscissero a dare il loro meglio quando sollecitati da domande aperte e con la sospensione di giudizi riuscissero a ben focalizzare i loro obiettivi. Il libro si chiama The inner game of tennis. Soltanto negli anni 90 la figura del coach compare nelle imprese e poi si è diffusa anche in altri campi quali per esempio la musica, la salute, l’educazione e anche la vita di tutti i giorni.
  1. ICF, l’International Coaching Federation, definisce il coaching come una partnership con i clienti, che cosa significa?
Il coaching è innanzitutto un processo creativo, di apprendimento, e riguarda innanzitutto noi stessi, il nostro essere, per questo si definisce anche coaching ontologico. Il coaching è una partnership in quanto attraverso un processo creativo stimola la riflessione, ispirando i clienti a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale. In questo processo il linguaggio riveste un ruolo fondamentale, in quanto il nostro modo di vedere la realtà è influenzato dalle nostre prospettive e il linguaggio genera realtà, è un po’ come se noi stessi, i nostri pensieri siano generatori di possibilità. Nel coaching ontologico trasformazionale poi si parte dal presupposto che nulla può avvenire se non apportiamo cambiamenti, se non avviene una trasformazione personale. È un po’ come se fossimo in una partita di calcio e guardassimo l’intera partita con gli occhi del portiere, ci mancherebbe l’angolatura dell’attaccante, del difensore, ma anche quella dell’allenatore, dei nostri compagni in panchina e degli occhi degli spettatori. Ogni tanto è bene cambiare il punto di osservazione, magari ci sentiamo un po’ disorientati all’inizio, ma poi scopriamo qualcosa di nuovo.
  1. Cosa vuol dire che il coaching fa sentire scomodi?
È un po’ come quando si cambiano gli occhiali da vista. All’inizio ci si sente un po’ scomodi, ma poi si vede meglio! Uno dei compiti del coach è proprio quello di far sentire scomodo il coachee. Magari con qualche domanda aperta che lo faccia riflettere e superare qualche filtro. Le nostre azioni derivano dalle nostre interpretazioni della realtà, che a loro volta sono condizionate dalle nostre percezioni, dalle nostre opinioni, credenze, modelli mentali. La filosofia costruttivista afferma infatti che non è possibile delineare una rappresentazione oggettiva della realtà, in quanto è il frutto della nostra interpretazione. Gli stimoli da parte del coach generano quindi apprendimenti nuovi, nuove azioni che portano a definire con chiarezza i propri obiettivi e poi a raggiungerli.
  1. Il Coaching aiuta a definire i propri obiettivi e a raggiungerli?
Sì, Il Coaching dunque è un metodo di sviluppo del potenziale della persona (singola o gruppo) che poggia su 3 pilastri fondanti: Una Relazione Facilitante fra Coach e Coachee (Cliente), lo sviluppo del potenziale del Coachee, la definizione di obiettivi e l’elaborazione di piani d’azione. Durante un percorso di coaching il coachee acquisisce delle abilità ad agire in una situazione data e smette di subire la situazione stessa. L’obiettivo del coach è rendere le persone autonome nel più breve tempo possibile. Per fare ciò deve saper osservare la situazione attuale, la difficoltà che vuole superare, ed esplorare nuove strade. Con determinazione il coachee sarà quindi in grado di definire quale vuole essere la sua situazione ideale e si lavora per raggiungerla espandendo pian piano la propria capacità di azione, uscendo dalla propria area di comfort così da incorporare nuove competenze. Ovviamente questo si fa in step progressivi, è un vero e proprio percorso, così da evitare di entrare in una situazione di panico. Il coachee non è mai forzato a compiere azioni che non sia lui stesso a identificare come proprie e il coach non avrà mai parole di giudizio o comando. Il coaching è una professione di servizio, il coach non dà giudizi ma restituisce feedback al coachee al fine di offrire la possibilità alla persona di fare apprendimenti, in un contesto di fiducia e impegno. È responsabilità del coach creare questo contesto, un ambito riservato. La sessione di coaching è sacra, tutto quello che si dice resta tra le due persone, come se fossimo in una bolla con gli occhi sulla realtà ma da sé per un attimo distaccata.
  1. Quali casistiche, quali obiettivi vengono richiesti più spesso dai coachee?
Mi è capitato molto spesso di lavorare su situazioni non soddisfacenti per la persona sia in ambito lavorativo e di crescita personale sia affettivo. Quando parlo dell’ambito lavorativo non mi riferisco solo ai contesti aziendali ma anche a liberi professionisti e all’ambito artistico, principalmente a quello musicale. In generale nei momenti di incertezza e di cambiamento, come lo è questo periodo per molte persone, occorre concentrarsi ancora di più sulle proprie capacità e competenze. Sempre più spesso ci ritroviamo ad affrontare decisioni impegnative ed inattese dal punto di vista personale e professionale: da un potenziale trasferimento di città alla rinegoziazione di accordi commerciali, alla perdita di persone care, a relazioni difficili con colleghi di lavoro o nella vita privata, allo stesso tempo nuove scelte lavorative o l’inserimento nel mondo del lavoro. Tali situazioni richiedono un nuovo approccio, nuove risorse fondamentali per dimostrare la propria capacità di guidare e gestire tali importanti cambiamenti. Il coaching ha un ruolo chiave in questo. Collaboro con una Business School di Roma e gli studenti dei percorsi di Master spesso portano temi inerenti la scelta e ricerca del lavoro e come affrontare al meglio i colloqui di lavoro, quindi parliamo dell’ambito del career coaching. In realtà il mio avvicinamento al Coaching è avvenuto proprio in questo ambito perchè per alcuni anni ho coordinato il Career Center di una associazione no-profit internazionale, che aiuta le donne a basso reddito che sono rimaste senza lavoro, promuovendone intraprendenza, iniziativa, creatività, sostenendole nel processo di ricerca di lavoro e promozione, grazie all’attività di Coach volontari.
  1. Come si sviluppa una sessione di coaching?
Normalmente una sessione di coaching può durare tra i 30 minuti e 2 ore e si svolge in fasi. Si parte dalla situazione attuale, dove è la persona oggi, e si esplora cosa sta vivendo, attraversando, che cosa accade. Si domanda di raccontare la situazione, come viene vissuta a livello emotivo, più domande per fondare le opinioni che vengono espresse. Emergono quindi dei paradigmi, i valori della persona. Con domande brevi, semplici, aperte, il coach riesce a smuovere qualcosa nella persona e da qui segue poi la definizione della situazione ideale, l’obiettivo da raggiungere. In particolare si definisce cosa il coachee vuole realizzare, cosa è disposto a fare, quali benefici gli porterà il raggiungimento dell’obiettivo, cosa lo spinge verso l’obiettivo e quali capacità personali dovrà mettere in campo. Occorre poi definire un piano di azione, la strategia che serve per passare dalla situazione attuale a quella ideale, cosa farà il coachee per raggiungere l’obiettivo e quando lo farà. Si esplorano anche gli ostacoli che il coachee potrebbe incontrare, come li gestirà, chi lo potrà aiutare, cosa gli dirà di essere soddisfatto.
  1. Come vengono monitorate queste azioni durante il percorso di coaching?
Dalla seconda sessione poi inizia la fase del monitoraggio rispetto alle azioni definite la volta precedente e si prosegue con la definizione di nuove. Il monitoraggio è una fase positiva, molto importante, in quanto si analizza cosa è successo tra una sessione e l’altra, quali azioni il coachee ha intrapreso dall’ultima sessione, cosa gli ha permesso di farlo, quali strumenti, persone e situazioni gli sono state confacenti, così da identificare altresì se manca qualcosa, cosa lo ha ostacolato, se sono necessarie nuove strategie, misure correttive o alternative da introdurre. Di fatto la relazione che viene instaurata con il Coachee è la vera colonna portante dell’efficacia del percorso. È una relazione che non ha uguali, che si sviluppa in una partnership con le 2 posizioni in simmetria, mentre i ruoli sono complementari ed il contenuto è asimmetrico ed esclusivamente del Coachee. Il Coach si pone nella posizione socratica del “so di non sapere” riguardo a tutte le sfaccettature del contenuto che emergerà. Il Coach è pertanto colui che ha la gestione del metodo e del processo, mentre non ha in nessun modo/momento la gestione del contenuto che verrà a svilupparsi.
  1. Cosa sono le domande potenti?
Le domande potenti servono a sbloccare strade chiuse o credenze limitanti. Il coachee è spaventato all’idea del cambiamento ma talvolta si possono modificare le abitudini con piccole modifiche dei comportamenti. Es. se un coachee è abituato a rispondere sempre di sì a richieste di altri, anche quando non sono per lui ottimali, con le domande potenti si stimola il coachee per imparare a integrare la risposta con altro, in determinati contesti, non si richiede ovviamente un cambiamento repentino. Le domande potenti quindi spingono il coachee a uscire dalla condizione di vittima e sono potenti quando nascono dall’ascolto. Le domande potenti normalmente sono brevi, aperte, impreviste in quanto generano sorpresa e silenzi, sgretolano le abitudini, arrivano dritte al punto, stimolano riflessioni sull’azione, sull’introspezione, sul far emergere emozioni. Non devono invece essere suggestive ovvero contenere suggerimenti, non devono contenere opinioni, emozioni, modelli mentali, non devono essere chiuse e non dovrebbero contenere domande multiple.
9. Cosa succede quando ci sono blocchi emotivi?
Le emozioni sono legittime e spesso non sono controllabili, infatti non si dice il controllo delle emozioni bensì la gestione delle emozioni. Se una emozione è ripetitiva, allora occorre pensare prima a come gestirla prima che la situazione che la genera si ripresenti, a livello razionale. In questo l’empatia tra coach e coachee è fondamentale e necessaria per riconoscere le emozioni, non basta l’ascolto. Le emozioni possono essere positive o negative a seconda della persona e riconoscerle nel giusto modo vuol dire cercare una omeostasi generale tra i tre domini del linguaggio, corpo ed emozioni. Come dice Goleman, il padre spirituale dell’intelligenza emotiva, le emozioni portano azioni, pertanto quando ci sono blocchi emotivi, non possiamo fondare le opinioni se prima non viene rimosso il blocco. Per esempio, se il coachee nutre rabbia, prima occorre esplorare come i pensieri negativi possano essere tramutati in gioiosi, quali emozioni possono essere lasciate andare, lavorando sulle emozioni attraverso il linguaggio, e poi si lavora sulle opinioni della persona. I coach velocizzano processi, ma le credenze pregresse rallentano il cambiamento, pertanto durante il percorso i coach aiutano a vedere altro. Il pensiero dunque va a delineare un futuro realizzabile, il coachee inizia a prestare attenzione a cose nuove, ad attingere a risorse che non pensava di avere, ciò che nel coaching si chiama visione. La visione non è qualcosa di statico, bensì dinamico, è una nuova cosa che non solo dico di volere ma che rendo manifesta attraverso l’azione, non è il risultato ma il cammino. Seneca dice “Non c’è vento favorevole per la nave che non sa dove andare”. Il coachee a volte tende a vedere il problema fuori di sé, ma in questo modo ricerca anche la soluzione fuori di sé. A tal proposito si cerca di richiamare l’attenzione su un suo ruolo di responsabilità, ma se non c’è nulla che il coachee possa fare allora si chiede di allontanarsi da questo che è dunque un non problema.
10. Cosa si intende per problema nel coaching?
Un problema è un gap da colmare, una situazione di difficoltà. È una opinione per il coaching ontologico. Ciò che genera il problema è l’opinione su un fatto. Il problema può essere interpretato in vari modi diversi, in generale aiuta il coachee ad ampliare o ridurre il campo di osservazione. Lo stato emotivo influenza il modo di vedere le cose. Le domande del coach supportano ad iniziare l’analisi dei fatti per vedere se c’è un restringimento. Questa è una fase preliminare, estremamente importante, che precede la definizione di un obiettivo. La sfida dunque è nel coachee che prende in carico il problema, il passaggio da vittima a responsabile. A volte ci sono azioni che il coachee svolge con minimo sforzo, senza pensarci ed in maniera inconsapevole. Questa è definita zona di comodo e si perde la relazione tra oggetto e soggetto in quanto condotta con minima consapevolezza. A tal proposito si lavora con il coachee di ristabilire la consapevolezza mediante la definizione dell’obiettivo. Un break esterno, un evento che interrompe il normale corso delle cose, può essere percepito negativamente se visto come vittima o positivamente se visto come opportunità. La sfida può essere di due tipi: imprevista se arriva al coachee da fuori, disegnata se è il coachee a decidere in maniera responsabile di interrompere l’inerzia, senza che arrivi qualcosa da fuori. Per affrontarla, innanzitutto l coachee dovrebbe riconoscere di voler fare qualcosa o accettare ciò che accade, dopo di che occorre lavorare sui dialoghi interni ed esterni, così da passare dalla situazione di vittima a responsabile. Se invece il coachee volesse restare nella posizione di vittima e subire l’impegno, occorre accettare il prezzo da pagare ed in ogni caso si stimola la costruzione di un piano di azione.
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